Il complesso di Edipo

“Io ti dico: quest’uomo che da tempo cerchi per l’uccisione di Laio minacciando ed emettendo proclami, questo è qui. Straniero, si dice, qui emigrato, ma poi sarà chiaro che è nativo di Tebe né si rallegrerà per questa sorte: infatti cieco mentre prima vedeva, povero invece di ricco, se ne andrà in terra straniera tastando col bastone la terra davanti a sé. Sarà chiaro che è dei propri figli fratello e padre, e della donna da cui nacque figlio e sposo, e del padre consanguineo e uccisore…” (Sofocle, Edipo re, v. 449-460). Così l’indovino Tiresia denuncia la colpa di Edipo, che lo ha convocato per sapere da lui il nome di quello per il cui delitto la città di Tebe è in preda alla pestilenza scatenata dalla collera degli dei.

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Il mito è ben noto a noi come lo era al pubblico ateniese. Vaticini funesti alla nascita di Edipo indussero il padre Laio e la madre Giocasta, signori di Tebe, a consegnarlo ad un servo perché lo uccidesse. Il servo ebbe pietà del neonato e lo affidò ad un pastore che lo portasse con sé tanto lontano da impedire il compimento dell’oracolo; il pastore a sua volta lo diede in dono ai sovrani di Corinto afflitti dalla mancanza di un figlio, i quali lo accettarono e lo allevarono come quel figlio che la sorte avesse loro finalmente concesso. Ma Edipo, divenuto adulto, da un altro presagio seppe che incombeva su di lui il destino di uccidere il padre e sposare la madre: inorridito abbandonò Corinto e vagabondò per la Grecia finché, giunto nella Focide, ad un crocicchio ebbe uno scontro con alcuni viandanti che lo insultarono e, preso dall’ira, li uccise tutti tranne uno che riuscì a fuggire. Da lì giunto a Tebe, trovò la città oppressa da un mostro spietato, la Sfinge: grazie alla sua intelligenza e al suo coraggio riuscì ad averne ragione e, liberata così la città, vi fu accolto trionfalmente ottenendo in segno di gratitudine le nozze della regina Giocasta il cui marito Laio non molto tempo prima era stato ucciso da banditi che lo avevano assalito durante un viaggio in Focide, come aveva raccontato l’unico servo scampato all’agguato. La regina portava in dote il regno di Tebe su cui Edipo regnò con giustizia e saggezza, mantenendosi la gratitudine e conquistandosi il rispetto dei cittadini, per molti anni. I figli della coppia reale erano già prossimi all’età adulta quando si abbatté su quel felice regno un terribile contagio che faceva strage di uomini e animali, contro il quale nulla potendo i rimedi umani, il re mandò a consultare l’oracolo da cui ebbe l’imperativo di trovare e punire gli uccisori di Laio.

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Da qui inizia la tragedia di Sofocle, una tragedia in cui non c’è azione, tutto è già avvenuto, c’è solo da scoprire che cosa è avvenuto: sulla scena del teatro lo spettatore vede lo svolgersi delle indagini attraverso le quali l’inaccettabile verità affiora, si nasconde, torna a emergere, è rifiutata, e infine si impone in tutto il suo orrore alla consapevolezza di Edipo.
Il mito è ben noto, ho detto prima: è forse quello che dall’antichità a oggi ha offerto lo spunto alle più frequenti elaborazioni in tutti i secoli successivi, non solo in campo letterario e teatrale. Sigmund Freud vi ha attinto per dare il nome a un processo che, secondo la sua teoria, riguarda tutti i bambini nella primissima infanzia: il desiderio inconscio di uccidere il padre per avere tutto l’amore (sposare) della madre. Non mi è chiaro se, in base a questa teoria, anche le bambine desiderino specularmente uccidere la madre per avere tutto l’amore del padre… Si può vedere un’altra interessante analogia con la psicoanalisi (mutatis mutandis: nella psicoanalisi è l’individuo che indaga, va a scavare dentro se stesso; nella tragedia di Sofocle l’individuo indaga, va a scavare nelle testimonianze di altri), nel processo attraverso il quale Edipo arriva a conoscere la verità che lo riguarda e suo malgrado si svela: egli cerca prove e testimonianze attraverso tutte le persone che possono fornirgli elementi utili ma, quando tali elementi gli si presentano, la sua mente razionale li contesta e li combatte. Allo stesso modo, in base alla teoria psicoanalitica la mente dell’individuo che ha vissuto eventi traumatici troppo dolorosi per poterli sopportare, li ha “rimossi” e “resiste” al loro voler affiorare alla coscienza: questi eventi rimossi lavorano nell’inconscio fino a provocare la malattia di cui non si capisce la natura né l’origine. Così i delitti commessi da Edipo, rimasti nascosti per molti anni, sono alla fine responsabili della malattia, la peste, che sconvolge Tebe: per liberare la città dal contagio bisogna portare allo scoperto la causa che lo ha provocato, ma il re “resiste” fino all’ultimo all’evidenza dei fatti. Le analogie finiscono qui: mentre il portare alla coscienza il rimosso è per Freud la liberazione dalla malattia, la risoluzione, nella tragedia sofoclea la conoscenza di ciò che era rimasto sconosciuto conduce al precipitare del dramma.

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Superfluo, credo, sottolineare che un interesse del tipo di quello suddetto è però del tutto estraneo al poeta greco. Egli è attento alla tragedia del personaggio: l’uomo è solo davanti al proprio destino, può combatterlo o accettarlo ma deve comunque subirlo, e la dimensione eroica gli viene dall’opporre invano la virtù, la grandezza d’animo, l’intelligenza e ogni altra dote che gli è propria, a questa cieca ineluttabilità del fato contro cui è del tutto impotente ogni capacità umana. Da qui la considerazione amara del coro: “Ahi stirpi di mortali, come uguale al niente io calcolo la vostra vita! Quale uomo, quale riporta più felicità che apparire felice, e declinare non appena felice sia apparso?” (Edipo re v.1186-92).

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